Enna. Calarsi nel gioco del teatro, vuol dire seguire delle regole serie, che partono anzitutto da un ascolto di sé e dell’altro, e dalla disciplina, per riporre piena fiducia nello spettatore o nel proprio collega in scena; in chiunque collabori nella costruzione di uno spettacolo. Così Filippo Luna: diplomatosi all’I. N. D. A. di Siracusa nel 1992, e formatosi sotto la guida di numerosi altri artisti, quali: Ezio Marano, Mimmo Cuticchio ed Emma Dante; attore e regista di molti suoi stessi lavori, che dal 2003 collabora con il Teatro Biondo Stabile di Palermo; ha espresso quanto appreso dalla propria esperienza ormai più che ventennale di attore, agli allievi del Teatro dei Territori.
Filippo Luna, il tuo percorso parte dalla formazione classica dell’Inda di Siracusa, per giungere a dei testi di bruciante attualità, che stai portando in scena. Cosa ti conduce a questo balzo temporale?
Sono le esigenze che si vanno profilando durante anni e anni di lavoro;anche perchè, una formazione classica che va bene ed è consigliabile per tutti, non può inquinare uno sguardo attento sulla realtà. Oggi il teatro ha bisogno anche di affacciarsi ai grandi temi sociali, e quindi, indipendentemente dalla formazione che si ha, c’è l’esigenza di tuffarsi sull’attualità, di ridarne un senso attraverso il teatro che è uno straordinario mezzo di comunicazione in tal senso.
Tra i testi cui mi riferisco, ci sono i recenti: “Le mille bolle blu”, e “La porta della vita”, due spettacoli che trattano rispettivamente di omosessualità e di migrazioni. Come nascono questi progetti?
Nascono sulla base di incontri fortuiti. Un incontro fortuito, è stato il libro: “Muore lentamente chi evita una passione, che mi è stato chiesto di presentare; il racconto “Le mille bolle blu”, è stato scritto da Salvatore Rizzo, e dopo averlo letto, per l’impatto emotivo suscitatomi, ho chiesto a Rizzo, di scrivermene un monologo, e da lì è nato lo spettacolo, che poi mi ha coinvolto anche nella direzione dello spettacolo stesso. Un incontro fortuito, per una riflessione voluta su quella che è la condizione di omosessuale, e di scoprire che, per due persone dello stesso sesso, nonostante un’intera vita condivisa insieme, non sia possibile poi, potere entrare nel merito su delle scelte da fare rispetto a un morto che si dovrebbe piangere in quanto si sente proprio, ma che per la legge non lo è.
“La porta della vita”, nasce da una riflessione fatta sulla questione dell’immigrazione e sull’informazione legata ad essa: noi abbiamo sempre l’ultima parte della notizia a riguardo, ma non sappiamo niente di queste persone; e allora sorge l’idea di raccontare queste persone umanamente per quello che sono: non sono dei numeri, né delle cose diverse da noi, o dei delinquenti nati, come per assurdo certe volte si pensa; e quindi parlare di quando partono per una speranza: sono migliaia di madri e padri che lasciano tutto, lasciano la loro terra.
Qual è la reazione del pubblico a riguardo
Il pubblico ha accolto straordinariamente sia nei confronti degli spettacoli che delle tematiche che portavo in scena, mostrando spesso una maggiore tolleranza di quanto poi non si racconti. Credo che, la gente, se stimolata emotivamente, comprenda meglio delle cose che magari all’apparenza paiono lontane perché non ci toccano, perché le vediamo solo in televisione, o non abbiamo un parente omosessuale o non lo siamo. Quindi il lato emotivo è fondamentale attraverso il teatro, e il pubblico ha sempre risposto con grande adesione
A quali altri lavoro, ti senti particolarmente legato, e che magari vorresti riproporre?
In realtà a tutti quelli fatti finora: non si può sposare un progetto se non lo si ama sino in fondo e se non diventa una parte propria, per cui lottare. Mi sento legato a tutte le cose che ho fatto, anche a quelle forse, che credevo mi rappresentassero meno. A certe cose ho scoperto di esserne legato anche dopo; nel tempo.
I tuoi spettacoli inglobano spesso, anche l’uso del dialetto, a tal proposito si pensa anche alla collaborazione che dal 2004, ti lega ai lavori classici di Vincenzo Pirrotta. Dunque, un ritorno ai classici e una immersione nel dialetto: in quali contesti lo hai inserito nei tuoi lavori teatrali; e cosa mi dici invece della collaborazione con Pirrotta.
Per quanto riguarda la collaborazione con Pirrotta, è una parentesi felice creativamente parlando, anche perché, ci conosciamo da quando eravamo bambini, abbiamo fatto lo stesso percorso scolastico, quindi c’è già un modo di vedere il teatro simile e vicino. A partire da questo per quanto riguarda il linguaggio.. io scopro la lingua siciliana grazie al gruppo dei “Tirammu” e grazie a uno spettacolo che si chiama “Ninnarò” che debuttò 15 anni fa con la regia di Mimmo Cuticchio, che per 3 anni ha fatto Vincenzo, che poi lo passò in eredità a me, e io me lo son tenuto per questi 15 anni. Il rapporto con la lingua siciliana è un rapporto che ho scoperto dopo, e mi duole non averlo scoperto prima, perché è pazzesca, completa, piena di possibilità espressive. Poi questo tuffo nei classici attraverso la lingua siciliana fatta con Vincenzo, è possibilità di riscoprire il classico stesso e anche le possibilità interpretative che la lingua siciliana dà all’interno di una struttura come le crea Vincenzo: come “La ballata delle balate”, o “U ciclopu”. Sono stati spettacoli, dove innovazione e tradizione a partire dal linguaggio, si sono fusi insieme.
Quando un testo non può considerarsi teatrale?
In realtà. Il teatro lo fanno anche le idee che spesso ti suggeriscono degli scritti: ci sono infatti, dei testi che sono teatro; che lo contengono; ma che non nascono come testi teatrali; al limite per non esser teatrale, non deve suggerire niente.. ma anche questo è molto relativo, soggettivo. Il teatro si è specchio di vita, quindi si trova dentro a tutto.
In una parola, cos’è il teatro?
E’.. emozione, passione, vita, sacrificio, disperazione, stanchezza, è scontentezza. Per tutto l’amore e passione che possono essere, non credo si possa affermare “senza il teatro non posso vivere”, perché la vita è una cosa e il teatro è un’altra. Dobbiamo attingere dalla vita per portare al teatro, e dobbiamo attingere dal teatro per capire meglio la vita.
Aurica Liva D’Alotto